BINARIO ATTESO di Gabriele Sorrentino

Un incontro inaspettato, un appuntamento inquietante, per un noir firmato dal nostro socio Gabriele Sorrentino. Da leggere con la luce accesa.

Lo stridore dei freni riempì l’aria, mentre una zaffata di vento umido gli sferzò il volto. Odorava di nafta e di cose vecchie. D’istinto, l’uomo si massaggiò, attraverso la mascherina, il mento irsuto con le tre dita superstiti della mano sinistra. 

Il tessuto di quel presidio chirurgico sulla pelle era fastidioso e innaturale, gli ricordava le bende che per mesi aveva dovuto tenere sul volto. Indugiò sulla piaga, celata sotto la barba ispida, l’ombra di una vecchia storia che era impossibile nascondere, come quegli oggetti che il mare sputava, d’inverno, sulle spiagge desolate.

Il treno si fermò con un singulto e l’uomo rabbrividì, mentre le carrozze sporche vomitavano ignari pendolari, una marea di occhi pensierosi dietro mascherine di diversi colori. Li ignorò, erano tante inutili formiche. Non contavano nulla per lui, come nulla contava quella dannata pandemia, qualcosa di lontano dal suo dramma personale. 

Infine l’uomo con la divisa verde scuro scese i gradini di ferro con passo sicuro. I loro sguardi si incrociarono per un istante, in mezzo al rumore della stazione.

Per un solo istante, sul viso stanco del controllore in verde, parve dipingersi un’ombra di comprensione, come se l’infame scavasse nella memoria alla ricerca del frammento di un ricordo. Lo colse nella fronte aggrottata e nell’espressione preoccupata che si materializzò sugli occhi chiari del controllore. 

L’uomo godette nell’intuire un’ombra di inquietudine coagularsi sul volto scavato che spuntava sotto il berretto verde. 

Con la mano destra che tremava per la tensione, il cuore che rimbombava nel petto, l’uomo cercò sostegno nel ruvido calcio della pistola che nascondeva nella tasca del soprabito. 

Sei mio.

Fece un passo in mezzo alla folla, ebbro della paura che coglieva nella smorfia scavata sul volto del controllore. Fu allora che l’urlo del treno dietro di lui lo stordì. Decine di vagoni sfrecciarono al suo fianco con un ululato belluino, mentre un convoglio Freccia Rossa attraversava la stazione come una coltellata. Terrorizzato, insaccò il collo cercando protezione nel bavero alzato del soprabito. 

Quando il treno fu lontano, alzò lo sguardo ma il berretto già galleggiava in mezzo alla folla, come una bottiglia tra i flutti. 

Furioso con sé stesso per quel gesto di debolezza, l’uomo con il soprabito lo seguì. 

Camminare gli costava uno sforzo notevole, la stessa piaga gli scendeva dal volto lungo la schiena sino alla gamba sinistra. Quando accelerava il passo le aderenze gli mordevano le carni e lui doveva imporsi di resistere, di non rallentare. 

Presto sarebbe finito tutto. Gli eventi che erano cominciati dieci anni prima su una lontana linea ferroviaria locale, avrebbero raggiunto il loro inevitabile compimento. 

Il controllore gettava sguardi nervosi verso di lui, l’uomo col soprabito non aveva dubbi. 

Mi ha riconosciuto.

Soddisfatto, cercò il revolver nella tasca. Il peso dell’arma gli diede sicurezza. La paura era evidente nei movimenti dell’altro e lui ne nutrì la sua rabbia, ne trasse forza nell’inseguimento. Il controllore tentò di infilarsi in un’area riservata, un deposito di treni merci ma l’uomo col soprabito lo seguì. L’ironia della situazione non gli sfuggì. La sua vittima non avrebbe potuto chiedere aiuto alla Polizia Postale perché era egli stesso un carnefice, un uomo che non meritava difesa. 

L’uomo col soprabito seguì il controllore tra rotaie e vagoni scuri. Sopra di loro il cielo era grigio e la foschia celava le ruote dei vagoni fermi.

“Smettila di fuggire”. La sua stessa voce gli parve estranea in quel silenzio. Il controllore si arrestò e si voltò verso di lui. Non vi era paura nel volto dell’uomo, e di questo l’uomo col soprabito rimase sorpreso. 

Il controllore si tolse la mascherina e rise. Un sogghigno forzato sotto folti baffi di foggia arcaica, un naso rubizzo e il berretto sgualcito. L’uomo col soprabito estrasse il revolver.

“Sei venuto armato”. La voce del controllore era antica e fuori posto. “Una prudenza inutile. Sei esattamente dove volevo che tu venissi”. 

Intorno a loro il paesaggio mutò. Non erano più in un deposito di treni moderni, ma in un cimitero di vagoni e locomotive di ogni epoca, affastellati come giocattoli gettati nell’immondizia. Il cielo divenne una lastra d’ardesia e il silenzio li avvolse.

“Mi vendicherò”. L’uomo col soprabito sparò ma il colpo non fece rumore. Centrò il bersaglio ma il controllore non si scompose. La sua divisa, a quella nuova luce, pareva più antica e inquietante. 

“Hai ucciso mia figlia!”. Il ricordo del treno in fiamme sulla piccola linea di provincia, le urla di Giovanna, il calore delle lamiere. Lui si era salvato. Aveva perso due dita nel tentativo di estrarre la figlia dalle lamiere roventi.

Non era arrivato in tempo. 

Era rimasto in rianimazione quasi un mese, al centro grandi ustionati di Parma. Poi la riabilitazione, il divorzio, l’alcool. Tutto per colpa di quell’uomo. 

“Ti ucciderò”.

“Accomodati”. L’altro allargò le braccia in segno di sfida. Lui sparò ancora ma il colpo si perse nel nulla. 

Cosa succede?

“Non hai ancora capito?”. Il sogghigno dell’altro non era cattivo, era piuttosto stanco.

“Cosa sei?”. Gli si scagliò contro e lo afferrò per il collo. Mollò la presa subito, la pelle del controllore era gelida e lui sentì il cuore perdere un battito.

“Ho molti nomi”. Rispose l’uomo. “Tu probabilmente pensi che io sia un mostro. Un demonio”.

“Hai ucciso tutte quelle persone”.

“Ma non ho ucciso i passeggeri del treno da cui mi hai visto scendere. Ti sei chiesto il perché?”.

La domanda lo colpì e la sua decisione vacillò. 

“Perché non lo hai fatto?”.

“Perché non era il loro momento. Mentre era giunta l’ora delle persone sul convoglio che è deragliato e ha preso fuoco, dieci anni fa. Come oggi è la tua di ora, scritta nel tuo destino sin dall’inizio dei tempi, un binario atteso”.

L’uomo col soprabito vacillò. Cominciava a capire ma il suo istinto di conservazione non voleva farlo. “Mi hai attirato qui”.

“Sei intelligente. Tutti gli indizi che hai trovato sul controllore che ha causato l’incidente del tuo treno, tutti quei ritagli di giornale, ogni prova che hai catalogato con grande pazienza. Tutto ci ha portato qui, oggi, dove il tuo destino di creatura vivente si compirà”.

“Non è possibile”. La sua mente razionale rifiutava quella rivelazione, prima ancora di esserne spaventata.

“Vedila così, se può farti stare meglio: ti ho dato una ragione di vita in questi anni. Non mi capita spesso di svolgere questo ruolo. Se ci pensi, è ironico”.

“Hai ragione”. Si arrese lui. “Come accadrà?”.

“È già successo. Quando mi hai seguito in questa zona ad accesso riservato”. Il controllore lo guardò con occhi vispi. “Non preoccuparti. Non avresti avuto alcuna possibilità di non seguirmi. Era il tuo destino. Ora sali su quel vagone illuminato. Non so cosa troverai, non mi è dato avvicinarmi”.

Il controllore si allontanò nella nebbia e l’uomo col soprabito raggiunse un vagone antico, con i finestrini che scintillavano della luce di tante candele. Intorno a lui la nebbia era sempre più opprimente e sentiva freddo. Si avvicinò al calore che quel vagone emanava e salì i tre gradini che lo portarono all’interno della carrozza. 

Nella stazione, di nuovo percorsa da centinaia di persone e attraversata dal rumore di decine di treni, il controllore osservò con distacco il cadavere dell’uomo che si era gettato sotto la Freccia Rossa che da Milano scendeva a Roma e che fermava alla stazione di Modena. Pensò alla stizza dei passeggeri per il ritardo, immaginò che pochi avrebbero cercato di comprendere il gesto di quell’uomo sfortunato, sopravvissuto dieci anni prima a un terribile disastro ferroviario. La pandemia aveva reso tutti più nervosi e meno attenti al bisogno degli altri. 

Non siete diventati migliori.

Non aveva tempo per quelle elucubrazioni. Aveva tanto lavoro da fare, ancora di più in questo periodo.

Modena, 6 novembre 2020

2020@copyrightGabrieleSorrentino

9 commenti

  1. In effetti, oggi come oggi, la vita appare sempre più un viaggio dalla meta incognita. Bravo Gabriele! Buone Feste! (Spero tu non debba prendere treni….)

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