L’UOMO DAL CAPPOTTO GRIGIO di Marco Panini
Emozioni, sorrisi, qualche malinconia, ma anche spensieratezza e tanta voglia di fare. Ecco la nostra nuova antologia virtuale di racconti legati a questo momento storico, che intitoliamo RACCONTI PANDEMICI. Cominciamo con il racconto del socio MARCO PANINI. Buona lettura!
Le falde di un cappotto grigio, sbrindellato e sporco di fango, gli sventolavano fra le gambe mentre scendeva la stretta scalinata sul fianco della massicciata. Sotto un braccio aveva un sacchetto di carta da cui sporgevano alcuni pezzi di pane e arrotolata sotto il mento portava una mascherina verde.
A metà della scala e per uno stretto ballatoio s’infilò sotto la volta della galleria che univa due rampe della tangenziale. Camminava svelto, a pochi metri del soffitto nero della volta, fra gas di scarico che rendevano l’aria irrespirabile. Dai lampioni scendevano caliginosi aloni di luce gialla, che lo illuminavano a tratti. Sotto rimbombava un traffico pesante e ininterrotto.
Lungo la parete s’aprivano a intervalli regolari strette gallerie per lo più buie e in lieve discesa, che finivano contro porte di lamiera ondulata, a volte sormontate da una fioca lampadina. Dietro queste porte c’erano piccoli vani direttamente scavati nella roccia, che un tempo costituivano i ripostigli per la manutenzione del tunnel. Ora erano le abitazioni degli sfollati, la gente che aveva lasciato paesi e periferie, dove tutto era in sfacelo nella speranza di trovare cibo e assistenza nei centri delle grandi città.
L’uomo ne imboccò una, le cui pareti erano piene di scritte in varie lingue. Giunse alla porta, sormontata da una lampadina nuda e sostenuta da un filo elettrico e l’aprì con una spallata, facendo strisciare la lamiera sul pavimento. La richiuse tirandola con violenza.
“Chi è?” – chiese una voce di donna irritata dal fondo dell’unica stanza, un budello lungo e stretto con la volta a botte e una finestra poco più grande di una feritoia, senza vetri e chiusa da due inferriate. Lungo le pareti grigiastre, macchiate da larghe chiazze verdastre, erano ancora visibili i segni degli stoccaggi del materiale.
“Sono io” – rispose l’uomo.
La donna, sollevandosi la mascherina fino a coprirsi il naso, venne sotto la luce dell’unica lampadina del locale, anche questa nuda e penzolante. Era alta, magra, un viso pallido dove spiccavano labbra rosse ancora tumide e occhi neri, infossati per la magrezza. Guardò l’uomo accigliata e gli intimò: “La mascherina!”.
Quello subito la sollevò fino a coprirsi il naso e disse, appoggiando il sacchetto su un tavolino rotondo da bar, verde e arrugginito: “Oggi solo pane, non ho trovato altro”.
“E per quel lavoro?”.
“Già occupato. Hanno preso nota del mio nome e hanno detto che se avranno bisogno…”.
“Come al solito!” – esclamò la donna con rabbia. “Dicono sempre così poi nessuno si fa mai vivo!”.
“È pane duro naturalmente…” – aggiunse l’uomo.
“L’hai rubato al maneggio?”.
L’uomo annuì.
La donna era una sfollata che aveva perso il resto della famiglia a causa del virus. Lui viveva con un fratello, anch’egli morto per il virus. I due stavano insieme solo per necessità, anche se ogni tanto dormendo nell’unico letto capitava che avessero qualche rapporto sessuale.
La donna si spogliò in fretta fino a restare completamente nuda, poi, tremando per il freddo, entrò in una tenda di plastica a fiori appesa per tre lati alla parete. Si sentì scendere l’acqua di una doccia e il suo grido disperato: “È fredda, per Dio!”.
L’uomo si sedette senza togliersi il cappotto, afferrò un lungo pezzo di pane con ambedue le mani e lo spezzò. Il pane si sbriciolò sul tavolino.
“Giò …” – chiamò la donna comparendo con la faccia sorridente fuori dalla tenda.
L’uomo la guardò stupito.
“Scusami, dovresti andare in farmacia a prendermi…”.
“Ma come, ancora?” – chiese l’uomo.
La donna sorrise.
“Non me l’aspettavo, li ho consumati tutti…”.
“Questo mese è già la seconda volta!” – disse l’uomo.
“Lo so, ma non posso farci niente. Il farmacista ti farà credito: lo sa che stasera ci pagano”.
L’uomo s’alzò e s’avviò verso l’uscita senza dire niente.
“Fai presto!” – urlò la donna uscendo dalla doccia e infilandosi un accappatoio azzurro. “Dobbiamo essere davanti al teatro alle sette, lo sai no?”.
L’uomo grugnì qualcosa, trascinò il battente della porta per uscire e la donna gridò con rabbia: “Sollevala, per Dio! Quante volte dovrò dirtelo ancora?”.
Lungo la salita verso il tunnel si sollevò il bavero del cappotto e si abbassò la mascherina. Dalla galleria, insieme al rombo incessante del traffico, giungeva una corrente d’aria fredda. Notò che quel giorno il traffico era più intenso del solito. Forse sono arrivate le provviste per i supermercati, pensò. E forse anche i vaccini… Ma questo ormai era solo un sogno.
Attraversò a ritroso gli aloni di luce che tagliavano il tunnel in sequenze regolari e raggiunse la scala che portava alla tangenziale. Fece alcuni scalini di corsa, ma subito si fermò ansimante. Gli piaceva correre. Un tempo scalava le montagne a piedi e in bicicletta e quel ricordo l’aggrediva spesso, era fra i più struggenti della sua felice vita d’un tempo. Ormai non aveva più le forze neppure per brevi tratti che, ogni volta che ci provava, erano sempre più corti. Ma avrebbe continuato a provarci… Fin quando il virus glielo avrebbe permesso. E nella sua mente partì il solito ritornello, ormai la sua unica filosofia di vita: prima o poi toccherà anche a me, spero almeno di fare in fretta.
Lungo la strada c’erano poche auto. Il traffico era tutto concentrato nel tunnel sottostante. Lungo i marciapiedi non c’era quasi nessuno: alcuni camminavano in fretta senza guardarsi intorno, come se stessero fuggendo da qualcosa, altri arrancavano ondeggiando, sempre sul punto di cadere. La strada s’apriva come una terrazza sulla città sottostante ed era il punto da cui si godeva lo spettacolo migliore. Lungo la balaustra del lato aperto c’erano molte panchine, un tempo stipate di turisti e cittadini in vena di godersi lo spettacolo; ora erano tutte vuote tranne alcune, su cui erano sedute alcune persone immobili e con gli occhi fissi nel vuoto. Due o tre si erano sdraiati come barboni, incoscienti o forse morti. Qualcuno era scivolato dalla panchina e giaceva riverso a terra.
La strada girava a sinistra e a metà di una curva comparve la farmacia. L’uomo la raggiunse e si mise in fila. Di nuovo qualcuno gli intimò di alzarsi la mascherina. Ai lati, alcuni uomini infagottati e rattrappiti si erano appoggiati al muro, come sacchi di patate. Altri giacevano per terra allineati contro al muro. Erano in molti a morire davanti alle farmacie. Altri luoghi gettonati per questo erano i Pronto Soccorso e gli studi dei medici di famiglia.
Finalmente riuscì a entrare: la farmacia era piena di gente, allineata secondo file preordinate, che finivano contro uno dei tanti parafiati montati sul banco. I farmacisti, in camice bianco e mascherina azzurra, entravano e uscivano in continuazione da due porte che portavano nel retrobottega. La luce era fioca e i neon del soffitto fibrillando minacciavano spesso di spegnersi. L’elettricità cominciava a scarseggiare e spesso mancava.
L’uomo avanzava lentamente distanziato dagli altri della fila e per ingannare il tempo cercava di decifrare la scritta in caratteri gotici su un’anfora panciuta posta sull’ultimo scaffale. Intanto pensava: «Non sono arrivati in tempo coi farmaci giusti né col vaccino». Alludeva agli scienziati, accusati dalla gente di non aver fatto abbastanza per debellare il virus. Ma non aveva più senso disquisirne: in quel livido tramonto dell’umanità, ormai l’unica cosa certa era che sarebbero rimasti in pochi. Aqua salutis purpura, diceva l’anfora.
“Mi dica…” – gli chiese distrattamente una dottoressa bionda col camice bianco sopra una gonna beige e una camicetta blu. Subito lo guardò di sfuggita ma poi lo riconobbe e sgranò tanto d’occhi. Anche lui la riconobbe e un enorme sorriso s’intuì sotto la sua mascherina. Lei invece si irrigidì e la voce le uscì alta e stridula per cui molti si girarono a guardarli.
“Mi dica!” – ripeté quasi con rabbia. L’uomo mormorò: “Pannolini… Cioè assorbenti…”.
“Sono per lei?”.
“No di certo! Per ora non ne ho bisogno…” – disse e quasi scoppiò a ridere. “Da donna e per le mestruazioni…”. Si abbassò verso di lei e sussurrò: ”Lavori qui? Non lo sapevo altrimenti sarei venuto prima”.
“Ti prego!” – sibilò lei e impallidendo domandò: “Che misura?”.
“Non so…” – farfugliò lui preso alla sprovvista. “Normale credo… Come te penso, se ricordo bene…”.
La donna arrossì violentemente e scivolò nel retrobottega. L’uomo rimase impalato davanti al banco, nella luce grigia dello stanzone stipato di gente che tossiva, grufolava dai nasi chiusi, lacrimava dagli occhi acquosi. La giovane farmacista tornò dopo poco con un pacco azzurro in mano.
“Questi andranno bene” – gli disse quando gli fu di nuovo davanti.
“Non possiamo rivederci?” – le chiese l’uomo. La donna fece finta di niente e andò a battere il prezzo alla cassa.
“Non ho soldi, ma ci pagano stasera a teatro. Torno domani a regolare il conto…”.
La donna alzò gli occhi verso un farmacista anziano poco distante, che assentì.
“Quando ci vediamo?” – insisté l’uomo avvicinandosi ancora di più alla cassa.
“Tu sei pazzo!” – disse la donna disperata. “Come puoi pensare a una cosa del genere in un momento come questo?”.
L’uomo sogghignò e sussurrò: “L’amore non muore mai, nessun virus riuscirà a farlo sparire!”.
Modena, 12 novembre 2020
2020@copyrightMarcoPanini
Meraviglioso racconto del dr. Panini
Tratta un tema attuale lasciando sempre l’ultima speranza: il virus puo’uccidere o cambiate la vita tranne i sentimenti. E forse sarà proprio l’amore a sconfiggerlo prima di tutti….. la forza dell’uomo sta in questo ,
Grazie Giovanna per aver visitato il nostro sito e per aver commentato. Continua a seguirci.