Un delitto efferato, una condanna, un luogo senza tempo, una svolta. Ambientazione da fantasy per il nuovo racconto a quattro mani di Daniela Ori e Gabriele Sorrentino.
NOTTE SCELLERATA
di Daniela Ori e Gabriele Sorrentino
Lo avrebbero giustiziato all’alba. Un decreto di condanna definitiva. La notte era fitta e nera e il gelo dell’inverno così pungente, da non consentire il sonno, in quella cella sotterranea del castello. Buio assoluto, topi che attraversavano le pareti sudice, pipistrelli che ammantavano i corridoi senza luce. Le mani e i piedi del condannato, imprigionate e strette nella morsa del ferro della sua prigione. Alla mano destra mancavano due dita.
Gli apparve un’ombra, oltre la grata di una minuscola finestrella e si materializzò qualcosa, qualcuno …. Aveva il cranio fracassato e sangue scuro che gli colava sugli occhi, senza orbite.
“Chi sei?” – domandò il condannato, atterrito.
“Chiediti chi ero e chi sarò … Io non sono più, ma sono stato e come tu mi hai ridotto e massacrato, così mi vedrai, per sempre, perché io ti seguirò all’Inferno, dove stai per essere scaraventato e là sarò per te il tuo incubo maledetto e ti tormenterò per l’eternità, perché queste catene ti legheranno a me, per sempre …”.
Il Re era stata la sua ultima vittima, il bersaglio finale di una vita dissacrata e vacua, senza onore e senza Dio, l’ultimo scempio delle sue innumerevoli e cruente azioni di vendetta e vanità. Al secolo, era nominato Craig, ma nessuno più lo chiamava in questo modo. Il Capitano di ventura aveva negato le sue origini di bovaro senza storia e senza lignaggio. La sua scalata, fatta di gesta senza onestà, lo aveva portato su una torre di presunta gloria e ricchezza, sempre alla ricerca di consensi e ingaggi, anelando a un titolo nobiliare, che avrebbe ottenuto solo dietro onerosissimo compenso. Ma l’anima non si compra, né l’onestà e il demonio, che era in lui, attendeva solo il momento giusto, per reclamare i suoi diritti. E quella notte scellerata era giusta alfine.
Un rumore di passi lo scosse dai suoi pensieri.
Sono già qui? Non è ancora l’alba!
La paura cominciò a farsi strada nel suo animo, fiaccato da mesi di prigionia. Tentò do ricomporsi: non avrebbe dato loro la soddisfazione di supplicare. Sarebbe andato al patibolo come un nobile, non come il bovaro che era stato.
Una chiave fu inserita nel pesante chiavistello e sferragliò. La porta si socchiuse, il Capitano di ventura tirò le catene che aveva ai polsi nel tentativo di liberarsi. Quattro armati entrarono nella piccola cella. Indossavano le armature di piastre della guardia reale, con i pennacchi color smeraldo, le lunghe spade alla cintura e le picche strette tra le mani. Sul pettorale avevano il Basilisco in campo rosso di Re Kentigern.
Il pensiero del Re lo stordì. Era stato un buon amico. Eppure, lui lo aveva tradito.
Il sacerdote era in mezzo al drappello di scorta. Un uomo segaligno dal naso largo e gli occhi di una sfumatura violacea. Indossava il saio verde del Culto e lo guardò con sufficienza.
“Domani all’alba sarai impiccato come meriti” – disse senza emozione. “Sei un peccatore e un infame traditore. Nessun Inferno è abbastanza terribile per te”. Quelle parole erano pietre che lo colpivano senza pietà. “Hai fracassato il cranio a tradimento a un uomo cui dovevi la tua fortuna. Re Kentigern era un uomo saggio e generoso. Non meritava di morire così. Ora sua moglie Rhona dovrà regnare al posto del figlio: Ewan ha solo dieci anni”.
Il Capitano avrebbe voluto ribattere. Avrebbe voluto dire che la morte del Re era necessaria, perché egli aveva stretto un patto di sangue con una creatura antica come la terra stessa, un essere che dormiva nelle profondità del castello. Un essere che li avrebbe divorati tutti.
“Puoi ancora redimere la tua anima putrescente” – lo ammonì il Sacerdote.
Il Conte lo osservò, con interesse. “Qualcosa si è risvegliato nel ventre della montagna. È un essere di vento e ghiaccio e ha divorato interi villaggi. Se lo ucciderai, avrai salva la vita”.
“Uccidetelo voi” – rispose lui. Sapeva cosa si era risvegliato. Quando Kentigern aveva scoperto quel maledetto libro e lo aveva letto. “L’Essere Primordiale poteva essere ucciso solo col sangue reale” – così c’era scritto nel libro. Per questo ho ucciso Kentigern e ho intriso la mia spada nel suo sangue. Non è servito a nulla”. Ricordava l’Essere, un cavaliere di vento su un destriero di ghiaccio. La sua spada che lo colpiva sul petto e andava in mille pezzi, il suo braccio che diventava insensibile, assiderato. Lo sguardo gli andò ai moncherini dell’anulare e del mignolo, persi quella notte.
“La profezia è vera, ma il sangue era sbagliato” – rispose il Sacerdote. “Quando fu scritta, esisteva un solo grande sovrano. Oggi la nostra terra è divisa in troppi regni”. C’era amarezza nella sua voce. “Kentigern era un brav’uomo, ma non discendeva dal sangue reale originario. Per questo si è fatto corrompere dal libro”. Il Sacerdote allargò il saio e mostrò l’elsa di una spada di aspetto antico. “Questa è la lama rosso carminio forgiata nel sangue dei Primi Re e da sempre custodita dal mio Ordine. Tu sei l’unico che può impugnarla e affrontare la creatura. Se vivrai, il tuo onore sarà riabilitato. Avrai nuove terre e ricchezze. Se morirai, sarà la nostra fine”.
Il Conte rifletté. Era meglio morire combattendo contro quell’Essere? Oppure rassegnarsi alla forca?
“Se fuggissi?” – domandò.
“Non lo farai. Tua moglie e i tuoi figli sono prigionieri nella Torre del Corvo. Se fuggirai, loro moriranno al tuo posto”.
“Ti ucciderò” – promise il Conte.
“Se prima avrai salvato il Castello, allora ne sarà valsa la pena”.
Una notte gelida aleggiava sulla città. Artigli di neve l’avvolgevano e sferzavano il volto con cristalli di ghiaccio. Le guardie reali lo scortarono sino alla Montagna Sacra che sorgeva a meno di un miglio dalla capitale. Un tempo i Nove Popoli avevano stretto la loro alleanza sulla sua cima, fondando un Regno prospero e stabile. Dopo quasi un millennio, quel regno era affondato nel sangue e nelle gelosie e così la loro terra si era spezzata in regni e principati in guerra tra loro.
La loro avidità aveva liberato gli Esseri Primordiali. Il più terribile di queste creature lo attendeva ai piedi della montagna. L’Essere era una creatura di puro istinto. Il suo destriero era composto di cristalli di ghiaccio, la sua armatura era di neve e il volto turbinava di vento. La sua spada era una lama di ghiaccio che scintillava al sole.
Quando si affrontarono, la neve cominciò a cadere dal cielo color perla. Tutto era avvolto nel silenzio più cupo e buio, rischiarato solo dal biancheggiare della neve al lucore della nevicata. Il cavallo del Conte sbuffò di nervosismo. Si voltò indietro e vide che la Guardia Reale si era ritirata verso la capitale.
Era solo con la creatura. Snudò la spada che gli aveva dato il Sacerdote. La lama larga era innervata di sfumature carminie. Era difficile reggere l’impugnatura con due dita di meno, lo sforzo delle rimanenti era terribile.
“Riavrò il mio onore” – gridò, mentre caricava verso il nemico che lo attendeva immobile. La spada di ghiaccio lo centrò sullo scudo e glielo fracassò. Lui cadde sulla neve mentre la creatura si accaniva contro la sua cavalcatura. L’animale nitrì di disperazione, mentre la sua pelle calda, al contatto col gelo, sfrigolava e bruciava.
Il Conte si alzò a fatica. Il braccio sinistro reso insensibile dal colpo. Pensò a sua moglie e ai suoi figli e ritrovò coraggio. Con un grido si scagliò sulla creatura e affondò la lama cremisi nel suo corpo di vento. La sensazione fu simile alla precedente, una lama di gelo che lo attraversava. Questa volta, però, la creatura cominciò a fumare, come quando si gettava dell’acqua calda nella neve, poi assunse consistenza e con un grido che sembrò provenire dalle radici stesse del mondo, si accasciò a terra, mostrandosi per ciò che era.
Un Essere allampanato e pallido, con una carnagione grigiastra. Pareva una promessa di essere vivente, qualcosa di incompiuto. Al Conte ricordò il feto morto espulso da una giumenta quando lui era solo un bambino.
La creatura reagì con forza e torreggiò su di lui, orrenda e furiosa. Lo colpì con il taglio delle mani che era affilato come un coltello e gli fracassò la corazza, spaccandogli poi l’elmo.
La gragnuola di colpi lo atterrì. Profonde ferite gli si aprirono in volto, nelle braccia e nel petto. La creatura era silenziosa come la morte e lui era troppo stanco per affondare di nuovo la spada cremisi.
Fu in quel momento che la Creatura lo colpì alla gola e il sangue zampillò caldo su di essa. Con un grido, l’Essere cominciò ad ardere dall’interno ed esplose in fiamme bluastre, mentre la neve cessava di cadere e il cielo si popolava di stelle.
L’ultima cosa che il Conte vide, fu quella creatura trasformata in una torcia e che poi si spegneva, ridotta a un ammasso di cenere che si mischiava alla neve.
Il buio lo avvolse, poi fu di nuovo una luce calda che lenì il suo dolore. In fondo alla luce, lo aspettava Re Kentigern. Il suo cranio non era fracassato e il suo viso era sereno.
“Amico mio” – gli disse. “Mi spiace averti costretto a una tale sofferenza, ma era necessario”.
“Non capisco”.
“Non sono stato io a evocare l’Essere Primordiale. È stato lui a trovare me. Ho cercato di essere un buon sovrano, ma i Nove Popoli sono divisi e il nostro odio nutre quelle creature. Prima o poi doveva accadere. Avrebbe potuto risvegliarsi ai tempi di mio padre o di mio figlio. Sono felice che sia successo a me. Io non ero in grado di sconfiggerlo da solo. A quel punto era necessario che il mio più caro amico soffrisse e poi si redimesse”.
“Continuo a non capire”.
“La Spada Carminia non è forgiata nel sangue dei Re, ma in quello di coloro che l’hanno impugnata e hanno sacrificato la loro vita per onore”.
“Ma il Sacerdote ha detto…”.
“Ha detto ciò che doveva. Era necessario che tu ti sacrificassi inconsciamente”. Il viso del Re era velato di tristezza.
“Quando mi ha ferito, io l’ho ucciso”.
“Esatto. La Creatura non avrebbe ferito il Re, infatti sei stato tu uccidermi, nel timore del suo sangue. Ha, invece, ferito te e così si è condannato”.
“C’era anche il tuo sangue sulla spada?”.
“Certo. Quando mi hai ucciso, il Sacerdote l’ha raccolto”.
“Cosa sarà della mia famiglia, e della tua?”.
“Nessuno può dirlo. Noi ci siamo fatti da parte per consentire loro di vivere”.
Nell’immagine:
Cashel, Irlanda, 2014 (Foto D.Ori)