C’è sempre un po’ di nostalgia e di inquietudine quando si pensa agli anni del liceo. Nostalgia per l’età giovanile piena di sogni e speranze, inquietudine per il ricordo delle ore impiegate nello studio intenso, per la fatica e per quel modo di apprendere rigido e intristito da docenti spesso distaccati e freddi. Pensando a quel tempo ho deciso di leggere “Un liceo da suicidio” di Martino Sgobba. E’ un thriller di 160 pagine che si legge con curiosità, simpatico e accattivante, scritto con attenzione alle descrizioni degli stati d’animo, con attenzione al significato delle parole. L’autore è un professore, anzi un filosofo, uno scrittore che fa parte di quella generazione che parla e scrive in maniera accurata, attenta. Leggere testi così fa ricordare quanto è bella la nostra lingua italiana e quanto è varia di espressioni anche ironiche che evocano e descrivono emozioni mai in modo banale e superficiale.
La storia è quella tipica di un giallo con tutti i crismi. Ci sono morti, qualcuno che viene chiamato a indagare, segue la serie delle indagini, l’elaborazione degli indizi e le congetture per la soluzione del caso.
Il protagonista è l’ispettore scolastico Francesco Vicenti che si sta preparando al pensionamento. Ma accade qualcosa che lo fa scendere in campo di nuovo. In un liceo classico della Brianza, nel giro di due giorni, vengono trovati morti tre professori. Si parla di triplice suicidio.
Vicenti non rifiuta l’ultimo incarico e le sue ispezioni si incrociano con le indagini del commissario Corrado Alesci. Tra interrogatori ed elaborazioni mentali, Vicenti conosce i personaggi che frequentano il liceo, la dirigente Amanda Serrato, poi tutto il corpo dei docenti e in particolare Tommaso Losavio, un alunno bocciato che non si è mai in realtà allontanato dalla scuola.
Un thriller intrigante che sembra svelare oltre la storia le disfunzioni e le anomalie di un sistema scolastico, che rivela competizioni e rivalità tra gli stessi docenti. E oltre la corsa per la carriera, c’è quel rapporto distaccato tra gli adulti e i giovani, in eterno conflitto e contrapposizione.
Il romanzo esplora la personalità dei personaggi. La scrittura diventa il pennello che disegna il carattere, lo stato d’animo, le ansie, le aspettative, le preoccupazioni. C’è nel romanzo una sicura attenzione alla costruzione della frase, breve e incisiva, per creare armonia ed effetto. I capitoli sono brevi e si susseguono come pennellate che a poco a poco conducono a completare il dipinto. E qui sta il grande potere della scrittura. Il pregio maggiore è costituito dalla capacità di catturare, se il racconto è efficace. E questo romanzo non annoia e fa venire voglia di arrivare alla fine. Uno dei difetti che possono derivare dalla scrittura è invece il fatto che ciascuno di noi quando scrive mette qualcosa di proprio e così i personaggi riflettono aspetti caratteriali e stati d’animo del vissuto dell’autore. L’artificio che riesce a creare la scrittura dunque è lo spettacolo vero, è l’illusione della realtà, così come lo spettacolo sul palcoscenico che rappresenta una storia, mentre gli attori non la stanno vivendo, ma la stanno solo interpretando.
Infine nel romanzo c’è una attenta attenzione all’etimologia delle parole, il cui significato può rivelare o celare verità. O inventarle, come nell’accanimento a voler dare una spiegazione agli eventi, come per tacitare paure, o chiarire situazioni non comprese. E anche l’ironia conta.
Nei viaggi avanti e indietro tra Milano, Monza, Cainate e gli altri paesi dove si svolgono le indagini, il treno diventa il luogo delle meditazioni dell’ispettore Vicenti, la sede dell’elaborazione dei pensieri, il luogo dei ricordi, dei crucci, dei ripensamenti. Alla fine le idee, come in un puzzle, troveranno un senso composto nel disegno della soluzione.
Daniela Ori
Che bella recensione! Non vedo l’ora di leggerlo.
Non tocca a me dirlo, ma questa recensione di Daniela pone l’attenzione sulla funzionalità della scrittura nei confronti della credibilità dei personaggi. grazie