Presto avrebbe rivisto Chiara. E non si sarebbero lascia mai.
Che meraviglia!
Max allungò il passo. I portici del centro erano dominati dalla sinuosa mole della torre campanaria. Ignorò il freddo della mattina novembrina, pensando al dolce viso di Chiara, paffuto e gioviale, dominato da profondi occhi azzurri, così chiari da sembrare trasparenti. Chiara era bellissima. A Max aveva sempre ricordato una scultura di Bernini esposta alla Galleria Borghese, a Roma. Il ratto di Proserpina. L’aveva vista in gita scolastica, molti anni prima, ed era rimasto rapito dalle potenti mani di Ade che affondavano nei carnosi fianchi della ninfa.
Chiara era così, plastica e morbida. Era entrata nella sua vita come un raggio di sole, scacciando le nebbie di un’esistenza priva di scopo. Non era stata la prima, ma sarebbe stata l’ultima.
Un tempo c’era stata Ottavia, prosperosa e allegra. Gli aveva insegnato tutto dell’amore, poi lo aveva lasciato ed era andata via, fuggita con un maestro di saxofono. “Lui è un vero uomo, tu sei solo un bambino”. Così gli aveva detto. Era stata dura dimenticarla, ma ci era riuscito. Ma in fondo pensava a lei sempre con grande affetto.
Alcuni anni dopo, era apparsa sul suo cammino Alice, minuta e pallida. Nonostante volesse fare l’amore con lui col sottofondo della musica dei Black Sabbath e avesse il corpo coperto di tatuaggi, questa ragazza era una fragile sognatrice. Lui l’aveva protetta come si fa con un cucciolo per quasi due anni. Anche lei se n’era andata. “Mi stai sempre addosso!”. Gli aveva detto, dopo averlo chiamato alle più impensate ore del giorno e della notte, per risolverle i più insignificanti problemi. “Che ingrata”. Lei non lo meritava: dimenticarla era stato molto più facile. Semplice era stato ricoprire di terra grassa il suo cadavere sfigurato. Prima di chiudere completamente la fossa, nel giardino della casa di campagna dove viveva solo, aveva rivolto un affettuoso saluto ad Ottavia, che giaceva qualche metro più sotto.
Con Chiara, tutto sarebbe andato diversamente. Non avrebbe permesso al tempo di vincere. Avrebbe impedito alla routine di offuscare la magia della scoperta reciproca, trasformando ogni piccolo neo in un difetto inaccettabile che, come una montagna di rifiuti, seppelliva l’amore.
In poche parole, avrebbe impedito al loro amore di invecchiare.
Max aveva preso questa decisione subito, non appena si era reso conto di amare Chiara, di adorare il suo sorriso luminoso, di perdersi nei pozzi cristallini in fondo ai suoi occhi. Il tarlo della paura aveva lavorato silenzioso per mesi nella sua mente, fino a quando non si era deciso ad agire.
L’auto si fermò e Max scese. Intorno a lui il paesaggio era ovattato dalla foschia. Percorse il vialetto che conduceva alla casa colonica e aprì allegramente il portone. “Amore, sono a casa! Ho preso le caldarroste che ti piacciono tanto. E anche il castagnaccio”. Disse con giovialità, aprendo la porta. Emozionato, salì la scala che conduceva al piano di sopra. La casa era fredda, nonostante i termosifoni fossero accesi alla massima potenza.
Chiara lo attendeva nel grande letto matrimoniale che era stato dei genitori di Max. Indossava un abito con le maniche a sbuffo che la faceva sembrare un’adolescente. Sorrideva, mostrando denti bianchissimi. Solo gli occhi, sbarrati e vitrei, tradivano la trasformazione che era avvenuta in lei.
“Scusa il ritardo, per trovare un forno aperto ho girato mezza Modena”. Disse Max baciandola sulla fronte. Colse un guizzo negli occhi spenti di lei. Chiara era calda. Ci sono riuscito. “Vuoi sapere come è successo, amore?”. Domandò, estraendo da un cassetto una lettera sgualcita. Era un’antica eredità di famiglia.
“Non potevo permettere che anche tu andassi via come tutte le altre. Non avrei mai potuto dimenticarti, come ho fatto con le altre. Così ho cercato negli archivi di famiglia. I miei avi erano alchimisti ed esoteristi. Una di loro era stata amante di Raimondo di Sangro, Principe di San Severo, un grande alchimista ed esoterista, vissuto tra il 1710 e il 1771. Era stato lui a raccontare un antico rito celtico alla mia antenata. Ricordi lo specchio che ti ho regalato?”.
Max prese dal comodino un piccolo specchio dall’intelaiatura in bronzo, inciso con diversi simboli. “Ti dissi di specchiarti la notte di Ognissanti, perché era un’antica tradizione della mia famiglia. Tu lo hai fatto, ieri notte. Fai sempre ciò che ti dico, per questo ti adoro”.
Si sedette al fianco di lei. Il suo corpo ebbe un sussulto ma restò immobile. Le prese la mano, calda e fragile.
“Ebbene. Mentre tu ti specchiavi, io recitato un antica preghiera al Dio Teutanes, custode dell’Oltretomba. Mentre dormivi, ho asperso con una rugiada che avevo personalmente raccolto le mattine precedenti. Ieri notte tu hai compiuto il rito. Ti sei addormentata e la tua anima è passata attraverso lo specchio. Spero tu non abbia sofferto troppo, potresti aver sentito freddo o male al capo. Ma ora starai bene”.
La guardò con adorazione. Era così bella… Ora lui l’avrebbe protetta per sempre. “Ognissanti è Samhain, la festa celtica durante la quale il grande scudo di Skathach viene abbassato, eliminando le barriere fra i mondi. Grazie alla rugiada, la tua anima ha trovato la strada verso un luogo meraviglioso, ove mai potrà invecchiare e corrompersi. Resterà pura e sarà sempre felice. Io accudirò il tuo corpo. Lo nutrirò, lo amerò, lo detergerò. La sera guarderò nello specchio per dare la buonanotte alla tua anima. Non ci lasceremo mai”.
Max scrutò lo specchio. Per un attimo non vide nulla, tranne la sua immagine. Poi notò un bosco attraversato da ombre profonde. Una figura impaurita, si aggirava nel sentiero, chiamando aiuto. La sua voce giungeva lontana.
Era Chiara.
“Dove ho sbagliato?!”. Max osservò incredulo il luogo dove aveva spedito la donna che amava. Poi l’immagine scomparve e di nuovo rimase il suo riflesso nello specchio. La mano di Chiara si fece gelida. Una lacrima si materializzò sul bel viso di lei.
Copyright © 2010 Gabriele Sorrentino